La cassazione si è pronunciata dichiarando che non c’è reato se il datore di lavoro importuna la badante che ha assunto. La sentenza arriva dopo che una donna ha denunciato l’uomo che ci provava con lei, chiedendole favori sessuali ma senza mai essersi permesso di sfiorarla o maltrattarla senza il suo consenso.
Purtroppo leggere notizie di questo genere ci lasciano l’amaro in bocca: pensare di dover lavorare come badante significa dover sopportare che il nostro datore di lavoro ci importuni e che la legge non ci tuteli, sembra fantascienza.
Con la sentenza n. 31195/2019 la Cassazione assolve il datore di lavoro di una badante, accusato di aver avanzato numerose richieste di natura sessuale alla donna, dietro minaccia di licenziamento in caso di rifiuto. Assoluzione fondata sulla mancata prova della minaccia e sulla ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rese dalla donna, perché troppo schietta e diretta nel difendere le proprie ragioni con il datore. E poi le richieste erano accompagnate da “per favore” e “per piacere”.
Una sentenza che fa davvero molto arrabbiare le donne poiché, nonostante siamo nel 2019, il rispetto per loro non è mai abbastanza e questa sentenza ne è la dimostrazione.
Soprattutto perché la Acli colf, ha reso noto che, su più di 850 badanti intervistate, il 14% ha dichiarato di essere stata vittima di violenza sessuale, il 10% di insulti, il 5% di essere stata colpita da oggetti e il restante 2% di aver subito percosse.
Cerchiamo di capire che cosa ha portato la Cassazione a dare una sentenza di questo genere.
La vicenda processuale
Il giudice di primo grado condanna l’imputato ritenendolo responsabile del reato. Il Tribunale lo assolve però per insussistenza del fatto, rispetto alla diversa imputazione di tentata violenza sessuale.
Ricorre in Cassazione la donna dicendo che il giudice non ha preso in considerazione le sue parole, le minacce ricevute.
Provarci con la badante anche se in modo grottesco non è reato
La Cassazione, ha rigettato il ricorso della donna perché infondato.
La corte d’Appello si è pronunciata dicendo di aver analizzato attentamente le dichiarazioni sottoscritte dalla donna, di aver appreso l’insistenza e la minaccia dell’uomo che l’avrebbe licenziata in caso lei non si fosse concessa ma, questo non esclude, che siffatte sollecitazioni abbiano superato il limite, ma che non possono essere punite penalmente.
Anche se presenti registrazioni effettuate dalla donna, riproducenti alcuni colloqui avvenuti fra lei e l’imputato in cui questi, ignaro del fatto che le sue parole erano oggetto di registrazione, chiedeva a lei rapporti sessuali, si dichiara bensì disposto a pagarla, ma non le indirizza alcuna minaccia, anzi la invita a soddisfare la sua richiesta “per favore” o chiedendole “per piacere”.
Non è risultato quindi che il datore abbia minacciato la donna di farle perdere il posto di lavoro se non avesse soddisfatto le sue richieste sessuali.
Ricorrere a frasi tipo “Chi sta a casa mia deve fare quello che dico io” non è sufficiente a punire un individuo. Per quanto riguarda infine le dichiarazioni fatte dalla donna, la Corte d’Appello, le ha ritenute inattendibili a causa di un quadro un po’ incerto dato dalla donna.
Le sue parole non sono state molto convincenti e visto che si trattava solo di parole appunto, e che l’uomo non l’ha mai sfiorata, la Cassazione ha deciso di assolvere il datore di lavoro senza pensarci due volte.